Architecture & Yacht

Lo Studio dell’Architetto Matteo Picchio è diviso in due settori differenti: Architettura e Yacht Design e per ogni settore lavorano diversi collaboratori con differenti preparazioni, competenze e specificità. Il lavoro di Matteo Picchio, che segue in prima persona tutti i suoi progetti sia in uno, sia nell’altro settore è invece sempre quello di trasformare in realtà i sogni dei propri clienti, raggiungendo sia i loro obbiettivi che si erano prefissati e avevano richiesto, sia quanto non immaginavano neppure di aver bisogno.
L’approccio al progetto è di tipo “Architettonico” ed “Artigianale”. Il progetto è “Architettonico” in quanto viene impostato secondo l’essenza artistica dell’Architettura intesa come forma d’arte che, rispetto alle altre, ha in più la componente fondamentale della “funzionalità”.

Italian based Studio

A story about style & quality design

Nel progetto vengono messi a sistema una moltitudine di variabili di diversa disciplina, da quelle stilistiche – percettive a quelle tecniche – costruttive e funzionali. Il progetto è anche “artigianale” nel senso che prende forma intorno alla specificità del Committente; in alcune fasi del progetto Matteo lavora spalla a spalla con il suo cliente, per delineare insieme l’essenza del progetto e per impostare stile, scelte compositive ed organizzazione delle opere.
Una volta impostato il progetto, Matteo diventa l’unico interlocutore del suo Committente, interfacciandosi tra lui e tutti gli elementi, i professionisti ed i tecnici necessari a definire l’opera e gestirne la realizzazione rispettando le scelte prese inizialmente, i tempi ed i costi prefissati.

La passione nel DNA

Da un articolo di Yacht Design
COGITO, ERGO YACHTING di Giuliana Fratnik

«Progettare spesso significa togliere, eliminare tutto ciò che non serve o che non è in linea con quel progetto», spiega ancora Picchio. «Un principio che non è sempre facile far capire al committente. Il nostro lavoro è molto cambiato negli ultimi decenni. Saper disegnare non basta più, ormai ci sono i computer che lo fanno al posto nostro e noi dobbiamo prima di tutto fare un grosso sforzo per capire quali sono i reali desideri del cliente». 

I suoi progetti più famosi sono tutti legati a bellissime barche d’epoca. Dal pluricelebrato rimorchiatore Maria Teresa del 1962 al Riva Caravelle C5 del 1967, progettato dagli omonimi cantieri di Sarnico e costruito in Olanda da De Vries; fino all’affascinante Sea Home, una navetta disegnata e costruita dallo svedese Hugo Shubert nel 1919 e riportata a nuova vita dopo un lungo lavoro di refitting che ha compor- tato anche l’eliminazione di molti interventi fatti nel corso degli anni e non in linea con i suoi piani originali.

About Matteo Picchio

E’ stato fondato da Matteo Picchio a Milano nel 1996.
Matteo si è laureato in Architettura nell’anno accademico 1993/94 al Politecnico di Milano. Nella stessa Università ha svolto attività didattica e di ricerca fino al 1999, sia in campo dell’Abitare sia in quello della Progettazione Nautica.
Lo STUDIO DELL’ARCHITETTO MATTEO PICCHIO si è sviluppato fin dalla sua origine su due diversi settori: l’Architettura e lo Yacht Design; mentre la matita di Matteo passa continuamente da una casa ad uno yacht, i collaboratori dello Studio sono divisi tra chi si occupa di uno e chi dell’altro settore. Data la complessità dei progetti che vengono sviluppati, lo staff dello Studio è coadiuvato anche da consueti collaboratori esterni, specializzati nelle varie e specifiche discipline.
E’ stato fondato da Matteo Picchio a Milano nel 1996.
Matteo si è laureato in Architettura nell’anno accademico 1993/94 al Politecnico di Milano. Nella stessa Università ha svolto attività didattica e di ricerca fino al 1999, sia in campo dell’Abitare sia in quello della Progettazione Nautica.
Lo STUDIO DELL’ARCHITETTO MATTEO PICCHIO si è sviluppato fin dalla sua origine su due diversi settori: l’Architettura e lo Yacht Design; mentre la matita di Matteo passa continuamente da una casa ad uno yacht, i collaboratori dello Studio sono divisi tra chi si occupa di uno e chi dell’altro settore. Data la complessità dei progetti che vengono sviluppati, lo staff dello Studio è coadiuvato anche da consueti collaboratori esterni, specializzati nelle varie e specifiche discipline.

da Superyacht

Matteo Picchio si è laureato in Architettura nell’anno accademico 1993/94 al Politecnico di Milano. Nel 1996 apre a Milano lo studio. Nella stessa Università ha svolto attività didattica e di ricerca fino al 1999, sia in campo dell’abitare sia in quello della progettazione nautica. Lo studio si è sviluppato fin dalla sua origine su entrambi i settori, architettura residenziale e yacht design. L’attività nell’ambito della progettazione degli yacht ha origine da una passione personale di Matteo Picchio che, ancora studente di architettura, si è occupato dell’allestimento del “Raireva”, ketch oceanico in acciaio con poppa a canoa, progettato nel 1972 da Carlo Sciarrelli, il suo “Co- lin Archer”, di cui aveva mantenuto solamente lo scafo. Matteo, nella ricostruzione della propria barca, non si era occupato solamente del progetto di refit generale ma anche dell’esecuzione manuale di gran parte dei lavori. Picchio ha trasformato la sua passione innata per l’inventare e il costruire nella professione di architetto dove si immedesima non solo nelle scelte compositive, ma anche nelle tecniche costruttive e scelte di materiali come se fosse lui stesso ad eseguire direttamente i lavori. “Quando avevo cinque anni già navigavo sul dinghy 12’ che mio nonno aveva regalato a mio padre – ricorda Matteo – e insieme alla passione per la navigazione vera e propria mi è cresciuta una passione per il ‘fare’ a bordo, dalla semplice manutenzione al lavorare personalmente i materiali. Per mia fortuna mio padre ha avuto diverse barche, anche molto
belle. Poi mentre ero ancora studente mi è capitata tra le mani, il Raireva, leggendo proprio un annuncio su Nautica. Una bar- ca nata per fare il giro del mondo, che il suo armatore ha iniziato, ma non comple- tato. Con mio padre l’abbiamo comprata, svuotata completamente, portata in Ligu- ria e lì ho incominciato personalmente il paziente lavoro di ricostruzione. È stato il mio primo lavoro di restauro, che cu- riosamente ho iniziato non da progettista, ma da operaio. Ci ho lavorato due anni, mi sono laureato in ritardo, ma sono riuscito a imparare contemporaneamente il pro- getto e la sua realizzazione. Così è iniziata la mia carriera di yacht designer specializ- zato in restauri. Per me le barche sono nate come un gioco e continuano a esser- lo. L’architettura residenziale è quello che considero un lavoro serio e impegnativo e quando progetto, anche una casetta, mi sento molto appagato. Eppure oggi la mia professione è più indirizzata allo yachting che al residenziale”.

Lo yachting classico è un mondo esclusivo?
Andare da Genova alla Corsica, ad esempio, con una barca, a motore o a vela, è una scelta particolare, uno stile di vita, non razionale. Ci sono mezzi molto migliori, più veloci, più comodi e meno costosi. Se lo fai in barca, di 10 metri o di 50, stai facendo una scelta azzardata, culturale, di confronto con la storia e con la natura. Navigare è un gioco e bisogna stare alle regole del gioco. Chi non lo fa sbaglia. Chi affronta il mare con un mezzo sbagliato, sbaglia. Lo yachting, inteso nel senso inglese del temine, deve stare un po’ su un piedistallo. Cito una battuta scritta da Carlo Sciarrelli, nel suo famoso libro ‘Lo Yacht’: “Il marinaio chiede allo yachtman, ‘Signore desidera prender il timone?’ ‘No grazie, non prendo mai nulla tra i pasti’. Navigare su uno yacht era un esercizio molto aristocratico. Ora questa citazione è esagerata, ovviamente, ma riflette un po’ quello che dovrebbe essere l’uso di uno straordinario oggetto come uno yacht.
il restauro quindi…
È come se una persona dicesse “che senso ha acquistare il quadro originale di un artista, quando posso comprarne un poster o una riproduzione?”. O “che senso ha andare all’opera, per ascoltare della musica di 200 anni fa quando posso ascoltare l’ultimo cantante alla moda?”.

Forse è vero, ma io ragiono in modo diverso. Io penso che un tema come quello dello yach- ting vada affrontato come un fenomeno culturale, direi quasi nobile.
Quell’inizio così passionale è continuato con un’attività perso- nale a bordo?
Io ho passato mesi della mia vita a lavorare sulle barche di mio padre e a frequentare da ra- gazzino i cantieri, e in par ticolare quello di Sangermani. Cesare Sangermani mi ha dato tantis- simo, mi ha insegnato una quantità indicibile di segreti. Così per me le barche sono diventate un’opera d’arte, a vela a motore, nuova o antica. Costano anche meno di altre opere. Ho la fortuna di poter mettere la mia matita su opere d’arte. Ho studiato molto, non a scuola, ma
per conto mio, storia della marineria, le grandi battaglie navali e ho avuto anche la for tuna di attraversare l’Atlantico a bordo dell’Amerigo Vespucci, dove ho imparato e assimilato molta arte marinaresca classica. Quando affronto un progetto lo faccio sempre con molto rispetto.

C’è l’aspetto professionale, anche economico, ma soprattutto il piacere di partecipare a un percorso che farà poi navigare una barca, i clienti lo capiscono?
Sono fortunato. Una barca può durare un tempo illimitato. Fatti gli interventi necessari a rinforzare la struttura e attualizzati alcuni impianti, una barca può continuare a vivere per un tempo incalcolabile.

Quanto conta un’analisi filologica del progetto prima di intra- prendere un restauro?
Fondamentale. Prima di tutto sapere che cos’era la barca quand’è nata. Quali materiali furono usati. Oggi di difficile reperibilità, poiché i legni stagionati che si trovavano un tempo oggi ce li sogniamo. Non esistono più, semplicemente. Ci sono quindi evidenti complicazioni per far ricoincidere la barca con la sua originalità. Ma con un approccio adeguato, si può arrivare a so- luzioni coerenti. Queste barche però alla fine debbono navigare. Le barche a vela partecipano a regate, ma devono arrivare sul campo con mezzi propri. Quindi debbono venire almeno minimante attualizzate, con misura. Est modus in rebus. Ed è lì il bello. Lì sta l’arte. Con le auto è più facile. La filologia è totale. Ma la macchina arriva al concorso di bellezza su un carrello. La barca no. Su una barca di 120 anni fa metti a bordo un equipaggio e lei va. Su tutte le barche che ho restaurato l’armatore naviga, e molto. Non par tecipa solo alle regate d’epoca, ma ci fa anche le vacanze con i figli. È un uso vero, non solo da vetrina.
È un po’ come una casa, che anche con 100, 200 anni di vita, continua a essere abitata e a svolgere la sua funzione di guscio dell’uomo…
Di barche ce ne sono meno, e in più sono più assoggettate alle intemperie e non vivono in un ambiente facile.

Prima ha citato la difficoltà di reperire materiali originali. e la forza lavoro invece? ce n’è ancora di capace e disponibile?
In Italia più che in qualunque altra parte. Bisogna proporsi nel modo giusto. È facile spendere in un cantiere il doppio che in un altro. Bisogna che l’armatore si appoggi a chi sappia ese- guirgli il progetto giusto e sappia condurre un’adeguata direzione lavori. Ma ci sono un sacco di ragazzi giovani, non solo i vecchi maestri d’ascia. Occorre solo che qualcuno gli dica come devono essere eseguiti i lavori. Se gli dici di fare bene, fanno bene. E se è vero che non ab- biamo più cer ti materiali, come i legni stagionati, d’altra par te abbiamo tecniche raffinate che sopperiscono alla mancanza di materiali. Una volta, ad esempio, le barche non erano lucide come adesso. E oggi possiamo permetterci delle finiture straordinarie.

Dove si trovano i migliori artigiani?
Io sono milanese e conosco meglio la costa ligure e toscana. Poi viaggio in Inghilterra e negli Stati Uniti e in Tur- chia, dove ho costruito una barca di 40 metri, in un cantiere dove i maestri riescono con l’ascia a scolpire qualun- que cosa. In Adriatico ho avuto l’occa- sione di conoscere Carlini, uno dei più profondi conoscitori della maestria e della storia. Ma in tutti i casi occorre, lo ripeto, una direzione lavori esper ta. La barca restaurata ha avuto un momento di fulgore da oltre un tren- tennio.

Prosegue il trend anche in questi tempi difficili?
Oggetti di valore storico non tramonta- no mai. C’è sempre un appassionato che disponendo di ampi mezzi e potendosi permettere uno yacht nuovo di zecca, preferisce cercarsi un pezzo di storia e amorevolmente restaurarselo. E il vero lusso è disporre di una barca – come una che ho restaurato recentemente di 30 metri, con gli spazi di un 15 metri moderno – d’epoca, come pezzo uni- co, il massimo della esclusività. Ora sto lavorando su quattro restauri. Se debbo guardare nel mio studio debbo rispon- dere che il trend sta continuando.

Questi armatori sono filologici come lei nell’opera di restauro?
Due sono armatori giovani che stanno restaurando le barche di famiglia, con il piacere di continuare a far vivere una barca che ha fatto parte delle loro storia,ma anche di quella delle generazioni precedenti, con in più l’orgoglio di far vivere ancora meglio quella barca, come una sfida generazionale.

Il progetto richiede una prestazione, un percorso particolare, dato che si parte da un a barca già fatta?
Io preferisco progettare le case, dal punto di vista della creatività, perché il foglio è più “bianco”. Con le barche sei sempre su un binario e con la barca d’epoca hai vincoli enormi. Il progetto è compilativo e non creativo. Non è il massimo per un progettista. Più che inventi, più che sbagli. Ma lo studio e la conoscenza di quello che era, ti consente di gestire il progetto, il cliente e il cantiere. Non inventiamo tanto, ma con umiltà seguire un percorso già tracciato e delicatamente ricomporne i bordi e la trama. Devi essere uno strumento che dà la possibilità a un’antica gloria di continuare a vive

NAVIGARE alias ABITARE

Intervista a Matteo Picchio

di Nikolaus Göttsche

L’ architetto Matteo Picchio è uno “yacht’s man” nato sul dinghy di dodici piedi aquistato dal nonno e cresciuto sulle barche a vela in legno del padre. La prima vera esperienza progettuale avviene agli inizi degli anni ’90 con il “refitting” del “Raireva”, il suo ketch di 14 metri, disegnato da Carlo Sciarrelli nel 1972. L’attività prosegue con il restauro di barche d’epoca dal pedigree immacolato, ed oggi lo studio di Picchio a Milano è attivo parallelamente nella progettazione di grandi barche da diporto e nell’architettura residenziale.

NG Come architetto lei disegna sia case che barche, le capita di mettere in relazione i due ambiti progettuali?
MP Il mio studio si avvale di architetti, ingegneri navali e designer, ma la mia matita rimane una sola. Come metodo ho scelto volutamente di impastare i due ambiti progettuali. Mi capita di trasferire le soluzioni trovate per le case alle barche, e viceversa.
In campo navale lavoriamo sia al restauro di barche d’epoca sia nella progettazione di barche a vela e a motore di concezione modernissima. In campo architettonico realizziamo progetti di ville, interni di appartamenti e restauri di palazzi storici. Ci è capitato di progettare la casa per gli stessi committenti di uno yacht.

NG Possiamo affermare che prima di essere uno yacht designer, lei è un velista di razza?
MP Sono sempre stato un velista ma se penso “alla razza” mi vengono in mente le regate. La barca è invece per me un ambito completamente slegato dal contesto della competizione: un piccolo mondo gestibile in proprio, dove le leggi che governano la società della competizione servono a poco.

NG Ha eseguito il refitting del “Raireva” con un progetto di autocostruzione durato venti mesi. Una lunga traversata in solitario che ha inciso sul suo metodo progettuale?
MP E’ stata un’esperienza assolutamente fondamentale. Ho affrontato quel progetto quando avevo vent’anni ed ero studente di Architettura. Mi è servito a livello tecnico, ma sopratutto psicologico: è allora che ho imparato ad avere la tenacia necessaria per portare avanti un progetto.
Allora avevo appena letto il romanzo “I lavoratori del mare” di Victor Hugo, dove il protagonista per recuperare da solo un vascello si inventa arnesi complicatissimi, ad esempio dei grossi paranchi aggrappati agli scogli, oppure una forgia alimentata dal vento che si incanala tra le rocce. Con lo stesso spirito mi ero messo a ricostruire la mia prima barca.

NG Come nasce una “barca giusta”?
MP La “barca giusta” è quella fatta su misura. Il “Raireva” è la mia barca giusta, ha lo scafo in acciaio e la poppa norvegese che la rendono adatta alle traversate oceaniche. Dopo vent’anni è ancora la mia “casa” preferita. La abito quattro giorni a settimana e vi svolgo una parte del mio lavoro. Normalmente è ormeggiata a Genova; spesso ricevo i clienti nel suo piccolo quadrato per parlare delle loro grandi barche. Da ìl sono partiti progetti molto importanti.

NG Lei afferma che navigare significa rievocare la cultura marinaresca, in che senso?
MP La tipologia dello yacht di per se stessa offre un rimando alla tradizione della navigazione. Le barche da diporto non sono solo una forma di divertimento o un modo di fare turismo. Se si decide di andare in Corsica su uno yacht invece di usare un mezzo più pratico, si sceglie di accettare una scomodità per essere ripagati dal fascino della navigazione.
Spesso capita di ripercorrere antiche rotte commerciali, o di incrociare bracci di mare dove si sono svolte battaglie navali che hanno determinato la storia moderna… navigare significa anche rievocare la storia della marineria. Questo è il “navigare in maniera colta”…

NG In una precedente intervista lei diceva che il suo scopo è il raggiungimento di un equilibrato binomio “uomo-barca”, cosa intende?
MP E’ importante sentirsi in perfetta armonia con la propria barca. E’ un equilibrio che si espande a ciò che ci circonda, alle persone e al mare, e che dona una grande sensazione di libertà. Ecco allora che il ruolo del progettista diviene fondamentale per raggiungere il perfetto equilibrio tra barca e armatore. Il progettista rappresenta quel fondamentale anello di congiunzione tra il sogno e la sua realizzazione. Tengo a precisare che il merito dei miei migliori progetti va spartito con i rispettivi armatori.

NG Lei ha progettato uno sloop di dimensioni straordinarie, di cui è previsto il varo tra due anni: è una “barca giusta”?
MP Lo “sloop” è un mega-sailer di quarantotto metri per un cliente italiano, che ha collaborato in maniera assolutamente speciale al progetto. Voleva una barca per fare grandi viaggi, e questo sloop è pensato per spostarsi velocemente e in sicurezza come una vera nave a vela. In estate sarà nelle acque del Mediterraneo, in inverno nel mare dei Caraibi, ed ogni tanto farà delle escursione nel Mare del Nord. Abbiamo depurato le sue forme fino a raggiungere una linea essenziale ed allungata per aumentarne le prestazioni a vela. Credo proprio che diventerà la barca dei suoi sogni.

NG Le sue linee sono molto snelle ed eleganti come quelle di un grande veliero d’epoca: è una rievocazione della tradizione navale?
MP Rispondo facendo mia una citazione di Renzo Piano: “un buon progetto nasce con una mano legata al passato ed una tesa al futuro”. L’esercizio progettuale dello sloop 48 si è generato dall’incontro tra tradizione navale e ipertecnologia. Lo scafo lungo quarantotto metri è realizzato in lega leggera, l’albero alto più di sessanta metri è in un unico pezzo di fibra di carbonio.
La coperta in teak è “flush-deck”, ovvero completamente libera. La tuga è piccola e squadrata, volutamente non aereodinamica per un esplicito rimando agli yacht del passato. Gli ambienti interni sono spaziosi e completamente liberi grazie ad elementi strutturali in lega leggera. Abbiamo adoperato materiali di nuova concezione, ancora poco usati nella nautica da diporto.
Sarà una barca robusta e velocissima, fatta per navigare comodamente nei mari di tutto il mondo.

NG I grandi yacht di oggi hanno spesso una poppa iper-funzionale, la poppa di questo sloop mantiene invece una linea pulita e slanciata: un’altro omaggio alla tradizione?
MP Il riferimento è corretto. La poppa del nostro sloop è pulita e slanciata ma siamo riusciti a soddisfare anche gli aspetti funzionali. La sua parte centrale scende in mare grazie ad un meccanismo idraulico: una “spiaggetta” che permette l’uscita del tender e si richiude per ripristinare l’integrità formale dello scafo. Rispettare la tradizione non significa privarsi delle comodità.

NG Sir Thomas Lipton aveva un caminetto in pietra all’interno del suo “Shamrock IV”, uno dei tanti J-class che usava per le regate della Coppa delle Cento Ghinee, oggi Coppa America, che purtroppo non vinse mai. Lei afferma che il comfort è dato da ciò che non è essenziale, ovvero dalla presenza di dettagli “inutili”. Quali sono oggi questi dettagli?
MP Anch’io preferirei avere il caminetto in pietra e non vincere la regata. Una barca di grandi dimensioni deve essere progettata come spazio architettonico: una libreria, una cucina professionale, una “spa” o la cantinetta per il vino, fanno parte di quei dettagli che gratificano oggi i nostri committenti. Un buon progettista deve saper capire i desideri del suo cliente, anche quando questi rimangono inespressi perchè ritenuti eccessivi o inconsueti su una barca. Tra la suite armatoriale e la zona relax del bagno ad esempio abbiamo usato delle paratie che diventano trasparenti a comando, per separare i due ambienti con una “sfumatura” di luce. I letti e gli arredi non toccano quasi mai il pagliolato ma, per aumentare la percezione spaziale, galleggiano. Nei bagni abbiamo usato anche la pietra, che viene posata in lastre di soli tre millimetri accoppiate ad un materiale molto leggero di derivazione aeronautica in nido d’ape d’alluminio.

NG Il “quadrato” è il cuore di una barca. In questo sloop è sia plancia di comando che salotto: come gestire questa versatilità d’uso con l’elevato livello di comfort richiesto?
MP Il quadrato dello sloop 48 nasce da un compromesso con le linee esterne, lo abbiamo pensato di proporzioni contenute per mantenere uno scafo slanciato, ma al suo interno è molto spazioso (50mq) e rigorosamente essenziale. Le finestre della tuga possono essere oscurate fino alla totale opacità, grazie ad un film di cristalli liquidi inserito nello stratificato di vetro.
La timoneria interna e gli strumenti costituiscono una vera e propria plancia navale, ma quando la barca è in banchina o alla fonda vengono nascosti da pannelli per ottenere una configurazione “domestica” del quadrato. L’unica presenza d’arredo sono i divani e il tavolo, che paiono appena appoggiati.

NG Quali materiali avete usato negli interni e con quali accorgimenti?
MP Questa è una barca dove ha molta rilevanza l’aspetto materico. Abbiamo privilegiato le sensazioni tattili e il calore percettivo che trasmette un materiale. Lo scafo all’interno è finito con “fasciame a vista”. In realtà è un effetto dovuto a un controfasciame che racchiude all’interno lo strato di materiale coibente e gli impianti tecnici.
Enfatizzando il rapporto interno-esterno il teak della coperta viene riproposto nel pagliolato interno, in teak gommato bianco anzichè nero. I paglioli si fermano a qualche centimetro dallo scafo e una lama di luce bagna il fasciame per enfatizzare l’oggetto barca anche dall’interno.

NG Tra i suoi progetti di refit figura il “Tenace”, un rimorchiatore salvato dallo smantellamento e trasformato in yacht. Come ri-nasce questa barca?
MP Gli “explorer vessel” sono una nuova tendenza in campo diportistico e rappresentano il sintomo di una maggiore consapevolezza del patrimonio storico navale. Il rimorchiatore “Tenace” (oggi MariaTeresa, ndr) era stato costruito dai Cantieri Solimano di Savona ed aveva lavorato nel porto di Genova; sul finire della sua carriera è stato acquistato da una compagnia monegasca. I miei clienti lo hanno rilevato al prezzo del ferro poco prima che andasse in disarmo. Siamo riusciti a salvare il fasciame e alcuni dettagli d’epoca come gli oblò. La tuga è stata modificata per un uso diportistico, mentre il motore, gli interni, e gli impianti sono stati completamente rifatti. I lavori sono stati eseguiti con buona maestria presso i Cantieri Navali di Sestri a Genova, che hanno rispettato il budget prefissato. Un dettaglio non trascurabile.

NG Possiamo parlare di un recente boom dello yacht design italiano?
MP Sicuramente. Lo yacht design italiano è un settore in crescita da alcuni anni, ed è competitivo a livello internazionale. Le ragioni sono tante, non ultima una certa “genialità italiana”. In Italia oggi possiamo avvalerci di cantieri all’avanguardia, di mano d’opera raffinata e di bravi progettisti, sia architetti che ingegneri. Le commesse straniere non mancano. E’ un mercato che genera un indotto importante, e che sarebbe veramente un peccato sciupare.

da TOP YACHT DESIGN

Matteo Picchio “La barca giusta é quella su misura”

Durante la facoltà di architettura ha completamente ristrutturato la sua barca. Oggi progetta indifferentemente sia nell’architettura residenziale sia nella nautica. Con un’attenzione precisa alla tradizione navale anche nei progetti più innovativi.
L’ architetto Matteo Picchio è uno “yachtsman” nato sul dinghy dodici piedi acquistato dal nonno e cresciuto sulle barche a vela in legno del padre. La prima vera esperienza progettuale avviene agli inizi degli anni ‘90 con il “refitting” del “Raireva”, il suo ketch di 14 metri, disegnato da Carlo Sciarrelli nel 1972. L’attività prosegue con il restauro di barche d’epoca dal pedigree immacolato, ed oggi lo studio di Picchio a Milano è attivo parallelamente sia nella progettazione di grandi barche da diporto che nell’architettura residenziale.

Come architetto lei progetta sia per l’abitare che per lo yachting, le capita di mettere in relazione i due ambiti?

Il mio studio si avvale di architetti, ingegneri navali e designer, ma la mia matita rimane una sola. Come metodo ho scelto volutamente di impastare i due ambiti progettuali. Mi capita di trasferire le soluzioni trovate per le case alle barche, e viceversa.
In campo navale lavoriamo sia al restauro di barche d’epoca che nella progettazione di barche a vela e a motore di concezione modernissima. In campo architettonico realizziamo progetti di ville, interni di appartamenti e restauri di palazzi storici. Ci è capitato di progettare la casa per gli stessi committenti di uno yacht.

Possiamo affermare che prima di essere uno yacht designer, lei è un velista di razza?

Sono sempre stato un velista ma se penso “alla razza” mi vengono in mente le regate. La barca è invece per me un ambito completamente slegato dal contesto della competizione: un piccolo mondo gestibile in proprio, dove le leggi che governano la società della competizione servono a poco.

Ha eseguito il refitting del “Raireva” con un progetto di autocostruzione durato venti mesi. Una lunga traversata in solitario che ha inciso sul suo metodo progettuale?

E’ stata un’esperienza assolutamente fondamentale. Ho affrontato quel progetto quando avevo vent’anni ed ero studente di Architettura. Mi è servito a livello tecnico, ma sopratutto psicologico: è allora che ho imparato ad avere la tenacia necessaria per portare avanti un progetto. Allora avevo appena letto il romanzo “I lavoratori del mare” di Victor Hugo, dove il protagonista per recuperare un vascello da solo si inventa arnesi complicatissimi, ad esempio dei grossi paranchi aggrappati agli scogli, oppure una forgia alimentata dal vento che si incanala tra le rocce. Con lo stesso spirito mi ero messo a ricostruire la mia prima barca.


Come nasce una “barca giusta”?

La “barca giusta” è quella fatta su misura. Il “Raireva” è la mia barca giusta, ha lo scafo in acciaio e la poppa norvegese che la rendono adatta alle traversate oceaniche. Dopo vent’anni è ancora la mia “casa” preferita. La abito quattro giorni a settimana e vi svolgo una parte del mio lavoro. Normalmente è ormeggiata a Genova, spesso ricevo i clienti nel suo piccolo quadrato per parlare delle loro grandi barche. Da ìl sono partiti progetti molto importanti.


Lei afferma che navigare significa rievocare la cultura marinaresca, in che senso?

La tipologia dello yacht di per se stessa offre un rimando alla tradizione della navigazione. Le barche da diporto non sono solo una forma di divertimento o un modo di fare turismo… se si decide di andare in Corsica su uno yacht invece di usare un mezzo più pratico, si sceglie di accettare una scomodità per essere ripagati dal fascino della navigazione.
Spesso capita di ripercorrere antiche rotte commerciali, o di incrociare bracci di mare dove si sono svolte battaglie navali che hanno determinato la storia moderna… navigare significa anche rievocare la storia della marineria. Questo è il “navigare in maniera colta”.

In un precedente articolo lei si prefigge il raggiungimento di un equilibrato binomio “uomo-barca”, cosa intende?

E’ importante sentirsi in perfetta armonia con la propria barca. E’ un equilibrio che si espande a ciò che ci circonda, alle persone e al mare, e che dona una grande sensazione di libertà. Ecco allora che il ruolo del progettista diviene fondamentale per raggiungere il perfetto equilibrio tra barca e armatore. Il progettista rappresenta quel fondamentale anello della catena che sta tra il sogno e la sua realizzazione. Tengo a precisare che il merito dei miei migliori progetti va spartito con i rispettivi armatori.

Lei ha progettato uno sloop di dimensioni straordinarie, di cui è previsto il varo tra due anni, è una “barca giusta”?

Lo “sloop” è un mega-sailer di quarantotto metri per un cliente italiano, che ha collaborato in maniera assolutamente speciale al progetto. Voleva una barca per fare grandi viaggi, e questo sloop è pensato per spostarsi velocemente e in sicurezza come una vera nave a vela. In estate sarà nelle acque del Mediterraneo, in inverno nel mare dei Caraibi, ed ogni tanto farà delle escursione nel Mare del Nord. Abbiamo depurato le sue forme fino a raggiungere una linea essenziale ed allungata per aumentarne le prestazioni a vela. Credo proprio che diventerà la barca dei suoi sogni.

Le sue linee sono molto snelle ed eleganti come quelle di un grande veliero d’epoca, è una rievocazione della tradizione navale?

Rispondo facendo mia una citazione di Renzo Piano: “un buon progetto nasce con una mano legata al passato ed una tesa al futuro”. L’esercizio progettuale dello sloop 48 si è generato dall’incontro tra tradizione navale e ipertecnologia. Lo scafo lungo quarantotto metri è realizzato in lega leggera, l’albero alto più di sessanta metri è in un unico pezzo di fibra di carbonio. La coperta in teak è “flush-deck”, ovvero completamente libera. La tuga è piccola e squadrata, volutamente non aereodinamica per un esplicito rimando agli yacht del passato. Gli ambienti interni sono spaziosi e completamente liberi grazie ad elementi strutturali in lega leggera. Abbiamo adoperato materiali di nuova concezione, ancora poco usati nella nautica da diporto. Sarà una barca robusta e velocissima, fatta per navigare comodamente nei mari di tutto il mondo.

I grandi yacht di oggi hanno spesso una poppa iper-funzionale, viceversa la poppa di questo sloop mantiene una linea pulita e slanciata, è un’ altro omaggio alla tradizione?

Il riferimento è corretto. La poppa del nostro sloop è pulita e slanciata ma siamo riusciti a soddisfare anche gli aspetti funzionali. La sua parte centrale scende in mare grazie ad un meccanismo idraulico: una “spiaggetta” che permette l’uscita del tender e si richiude per ripristinare l’integrità formale dello scafo. Rispettare la tradizione non significa privarsi delle comodità.
Sir Thomas Lipton aveva un caminetto in pietra all’interno del suo “Shamrock IV”, uno dei tanti J-class che usava per le regate della Coppa delle Cento Ghinee, oggi Coppa America, che purtroppo non vinse mai. Lei afferma che il comfort è dato da ciò che non è essenziale, ovvero dalla presenza di dettagli “inutili”. Quali sono questi dettagli oggi?
Anch’io preferirei avere il caminetto in pietra e non vincere la regata. Una barca di grandi dimensioni deve essere progettata come spazio architettonico: una libreria, una cucina professionale, una “spa” o la cantinetta per il vino, fanno parte di quei dettagli che gratificano oggi i nostri committenti. Un buon progettista deve saper capire i desideri del suo cliente, anche quando questi rimangono inespressi perchè ritenuti eccessivi o inconsueti su una barca. Tra la suite armatoriale e la zona relax del bagno ad esempio abbiamo usato delle paratie che diventano trasparenti a comando, per separare i due ambienti con una “sfumatura” di luce. I letti e gli arredi non toccano quasi mai il pagliolato ma, per aumentare la percezione spaziale, galleggiano. Nei bagni abbiamo usato la pietra, che viene posata in lastre di soli tre millimetri accoppiate ad un materiale molto leggero di derivazione aeronautica in nido d’ape d’alluminio.
Il “quadrato” è il cuore di una barca. In questo sloop è sia plancia di comando che salotto, come gestire questa versatilità d’uso con l’elevato livello di comfort richiesto?
Il quadrato dello sloop 48 nasce da un compromesso con le linee esterne, lo abbiamo pensato di proporzioni contenute per mantenere uno scafo slanciato, ma al suo interno è molto spazioso (50mq) e rigorosamente essenziale. Le finestre della tuga possono essere oscurate fino alla totale opacità, grazie ad un film di cristalli liquidi inserito nello stratificato di vetro. La timoneria interna e gli strumenti costituiscono una vera e propria plancia navale, ma quando la barca è in banchina o alla fonda vengono nascosti da pannelli per ottenere una configurazione “domestica” del quadrato. L’unica presenza d’arredo sono i divani e il tavolo, che paiono appena appoggiati.


Quali materiali avete usato negli interni e con quali accorgimenti?

Questa è una barca dove ha molta rilevanza l’aspetto materico. Abbiamo privilegiato le sensazioni tattili e il calore percettivo che trasmette un materiale. Lo scafo all’interno è finito con “fasciame a vista”. In realtà è un effetto dovuto a un controfasciame che racchiude all’interno lo strato di materiale coibente e gli impianti tecnici. Enfatizzando il rapporto interno-esterno il teak della coperta viene riproposto nel pagliolato interno, in teak gommato bianco anzichè nero. I paglioli si fermano a qualche centimetro dallo scafo e una lama di luce bagna il fasciame per enfatizzare l’oggetto barca anche dall’interno.

Tra i suoi progetti di refit figura il “Tenace”, un rimorchiatore salvato dallo smantellamento e trasformato in yacht. Come ri-nasce questa barca?

Gli “explorer vessel” sono una nuova tendenza in campo diportistico e rappresentano il sintomo di una maggiore consapevolezza del patrimonio storico navale. Il rimorchiatore “Tenace” era stato costruito dai Cantieri Solimano di Savona e aveva lavorato nel porto di Genova; sul finire della sua carriera è stato acquistato da una compagnia monegasca. I miei clienti lo hanno rilevato al prezzo del ferro poco prima che andasse in disarmo. Siamo riusciti a salvare il fasciame e alcuni dettagli d’epoca come gli oblò. La tuga è stata modificata per un uso diportistico, mentre il motore, gli interni, e gli impianti sono stati completamente rifatti. I lavori sono stati eseguiti con buona maestria presso i Cantieri Navali di Sestri a Genova.

Possiamo parlare di un boom recente dello yacht design italiano?

Sicuramente. Lo yacht design italiano è un settore in crescita da alcuni anni, ed è competitivo a livello internazionale. Le ragioni sono tante, non ultima una certa “genialità italiana”. In Italia oggi possiamo avvalerci di cantieri all’avanguardia, di mano d’opera raffinata e di bravi progettisti, sia architetti che ingegneri. Le commesse straniere non mancano. E’ un mercato che genera un indotto importante, e che sarebbe veramente un peccato sciupare.

Matteo Picchio

Do you have a boat you want to restore or fix?

Leave your contacts our team will contact you for a free assessment